Rosalinda Renda, Critica Marxista, 1, 2009
Il libro di Jan Rehmann – I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione, a cura di S. Azzarà,Roma, Odradek, 2009, pp. 235 – si colloca nel solco della critica marxista dell’ideologia e della lotta teorica contro l’egemonia culturale borghese. Rehmann pone in atto la sua strategia decostruttiva della Nietzsche-Renaissance, confrontandosi con quanto di meglio la riflessione filosofica ha prodotto sull’argomento negli ultimi quarant’anni. Oggetto della sua critica è il nietzscheanesimo di sinistra, affermatosinel corso degli anni Sessanta e Settanta, soprattutto a opera dei suoi più autorevoli maitres à penser: G. Deleuze e M. Foucault.Entrambi vengono inquadrati dall’autore nella più ampia costellazione del postmodernismo, inteso nell’accezione datane da J. F. Lyotard nel 1979, secondo il quale la fine della Modernità segna l’eclisse della soggettività autonoma, la crisi della teleologia storica, il tramonto irreversibile delle metanarrazioni quali il marxismo e la psicoanalisi.In questa prospettiva l’intera modernità, secondo Rehmann, è ridotta a un unico blocco, privo di differenziazioni e opposizioni interne, che occulta ad esempio i caratteri emancipatori della ragione illuministica riducendoli alla dimensione unilaterale della ragione borghese. Il modello con il quale viene liquidata la dialettica dell’Illuminismo è desunto dallacritica della modernità di Nietzsche.Tale operazione risale al testo di Deleuze Nietzsche e la filosofia del 1962 che, per Rehmann, è fondamentalmente «una resa dei conti con la dialettica» (p. 37) di origine hegeliana. Il principio teorico del negativo, che nella dialettica appare come opposizione e contraddizione, sarebbe in realtà una falsa differenza, uno strumento del positivo che alla fine si affermerebbe quale ricomposizione della scissione dell’identità originaria.A tale presunto esito monolitico della ragione dialettica, Deleuze contrappone il pluralismo delle forze e la differenziazione dei valori derivanti dalla volontà (di potenza) che intende affermarsi come differenza, secondo la sua interpretazione del pensiero diNietzsche. Il criterio della differenziazione delle forze (la loro quantità e la loro qualità) è dato dalle coppie oppositive alto e basso, nobile e vile, attivo e reattivo. Questo «essenziale pluralismo» è, per Deleuze, «l’unico garante della libertà dello spirito concreto» (p. 37) diametralmente opposto al totalitarismo della dialettica.Contro questa lettura di Nietzsche in chiave ribellistica e libertaria,Rehmann solleva essenzialmente due rilievi critici: 1) la riduzione della dialettica alla sola dialettica hegeliana, trascurando, in tal modo, l’apporto marxiano, nei termini del suo rovesciamento materialistico. La dialettica di Marx non contempla alcuna identità originaria da ricostituire, ma si radica, all’opposto, nell’auto-dissociazione del mondo storico-concreto col fine del suo superamento rivoluzionario; 2) la rimozione, daparte di Deleuze, dell’origine della morale e della differenza dei valori che Nietzsche individua chiaramente in quel «pathos della distanza», che sta a fondamento del dominio di classe dell’aristocrazia antica sulla massa degli schiavi. Deleuze trasforma in forze attive e forze reattive le coppie nobile-ignobile, alto-basso, che in Nietzsche esprimono, rispettivamente,il carattere affermativo dei forti e il carattere negativo dei deboli chesarebbe ispirato dal ressentiment e dallo spirito di vendetta. È paradossale, afferma Rehmann, che i termini differenza e pluralità, destinati ad ottenere grande successo presso buona parte dell’intellettualità post-sessantottesca, siano stati tratti «dal progetto didominio esplicitamente antidemocratico di Nietzsche» (p. 54).L’occultamento del lato sgradevole di Nietzsche e la deformazione del suo pensiero, per piegarlo alla propria costruzione teorica, caratterizzano anche l’interpretazione di Foucault dalle opere degli anni Sessanta fino ai Corsi al College de France degli anni Settanta. Per Rehmann, lo scopo precipuo di Foucault era quello di accattivarsi le simpatie del movimentopostsessantottino, legando il pensiero nietzscheano alle tematiche allora in voga, ad esempio sottolineando come Nietzsche derivi la sfera morale da ciò che è basso, legato al corpo, quotidiano. Come in Deleuze, l’opera di stravolgimento del pensiero nietzscheano si fonda su delle omissioni: ad esempio Foucault tace completamente sulla circostanza che la critica anti-ideologica e anti-metafisica del Nietzsche della fase illuminista subisca, dopo lo Zarathustra, una «spinta alla verticalizzazione gerarchica» che promuove il dominio in maniera radicale (pp.138-141).Sulla base di queste premesse Foucault sviluppa negli anni Settanta la sua teoria del sapere-potere, derivante dal prospettivismo nietzscheano, volta alla demolizione della critica dell’ideologia di matrice marxiana.Rehmann dedica quasi metà del suo lavoro alla confutazione diquesta operazione. È la parte più complessa e stimolante del libro, sia per la critica dettagliata e puntuale dei testi, sia perché, nel fornire nuovi spunti interpretativi all’analisi del postmoderno, riempie un vuoto e un ritardo della critica marxista. A parere di Rehmann, le categorie formazioni discorsive, potere reticolare, dispositivi disciplinari sono ideate da Foucault senza riferimento alla struttura sociale, per cui glistessi mutamenti e l’evoluzione storica delle forme di potere nontrovano alcuna plausibile spiegazione. Il nietzscheanesimo di Foucaultconsiste principalmente, per Rehmann, «nella sostituzione della critica dell’ideologia» basata sul materialismo storico «con una critica finzionalistica della verità», fondata sul prospettivismo nietzscheano, e «nella costruzione di un concetto di potere» (p. 116) posto come fondamento ontologico dei rapporti sociali.
mercoledì 15 luglio 2009
DIMENTICARE MARX PER AFFERMARE LA VOLONTA' DI POTENZA
di Vladimiro Giacché, "il manifesto", 26 aprile, p. 14
Chiunque abbia compiuto gli studi di filosofia nei primi anni Ottanta e si sia rivolto al pensiero di Nietzsche si è dovuto confrontare con Nietzsche e la filosofia di Gilles Deleuze. Uscito in Francia nel 1962, questo testo allora circolava in una traduzione di Salvatore Tassinari (Firenze, Colportage, 1978). Chi scrive la cercò a lungo prima di poterla leggere. E di rimanerne assai deluso. Per un motivo semplice: la lettura proposta da Deleuze era molto lontana dal senso dei testi di Nietzsche, che già si potevano studiare nell’edizione critica a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montanari (non era così nella Francia del 1962 - e infatti Deleuze citava a piene mani da “La volontà di potenza”, una raccolta molto opinabile di frammenti postumi curata dalla tremenda sorella di Nietzsche). Lontana dal senso profondo di questi testi, e anche da quello superficiale. Che dire, ad esempio, dell’incipit del volume, che ravvisa il “progetto di Nietzsche” nell’“introdurre in filosofia i concetti di senso e di valore”, facendo di Nietzsche un Max Scheler qualsiasi? O dell’affermazione per la quale “la lezione dell’eterno ritorno sta in questo, che non c’è ritorno del negativo”? Nonostante la libertà ed arbitrarietà della sua interpretazione, anzi proprio per questo, il testo di Deleuze conobbe un enorme successo, e influenzò profondamente anche la lettura foucaultiana del pensiero del filosofo tedesco. Correttamente, quindi, Jan Rehmann sceglie di affrontare congiuntamente queste due interpretazioni del pensiero di Nietzsche. Ma l’obiettivo del suo testo è in realtà più ampio, e prende di mira l’utilizzo (anche) del pensiero nietzscheano per liquidare il marxismo. Operazione realizzatasi con pieno successo anche da noi negli anni Settanta e Ottanta (lo mostra la bella introduzione di Stefano Azzarà al volume). Grazie, appunto, anche a Deleuze e Foucault. Deleuze contrappone alla metafisica della negazione e della contraddizione (di stampo hegeliano e marxista) una metafisica delle “differenze”, valorizzando il Nietzsche pluralista e prospettivista. E crea una continuità Spinoza-Nietzsche che conoscerà enorme fortuna nei decenni successivi. Per quanto riguarda il primo aspetto Rehmann obietta, tra l’altro, che la contrapposizione di Deleuze trascura l’elemento dialettico presente nello stesso Nietzsche. Per quanto riguarda il rapporto con Spinoza, Rehmann mostra come l’identificazione del concetto di “potenza” nei due pensatori (che Deleuze traduce nella sua filosofia nel concetto di “desiderio”) trascuri la decisiva modificazione semantica subita dalla nozione spinoziana di “potentia agendi”: essa giunge infatti a Nietzsche mediata dalla traduzione contenuta nella Storia della filosofia moderna di Kuno Fischer (“Macht”) il che dà al termine una curvatura assai più inquietante di quella originaria (il termine tedesco significa infatti potenza, ma anche potere e violenza). Le pagine dedicate al concetto di potenza sono tra le migliori del libro, assieme alla confutazione della presunta contrapposizione di “provenienza” e “origine” che Foucault vede in Nietzsche. Quanto a Foucault, il concetto pluralistico di “potere” – ereditato dalla lettura deleuziana di Nietzsche – è notoriamente un tassello fondamentale del preteso superamento della teoria “totalitaria” del marxismo (e della psicoanalisi). Rehmann analizza l’intero percorso intellettuale di Foucault e osserva che in realtà Foucault fa uso di una categoria astratta e onnicomprensiva di potere, tale da configurare una vera e propria “metafisica del potere” (Breuer): un potere inteso insomma come una misteriosa entità che starebbe “dietro” tutti i rapporti sociali, come un piano ontologico più profondo. In tal modo, “la pretesa legittima di ampliare l’analisi del potere al di là del paradigma dell’appropriazione si rovescia in un essenzialismo mediante il quale il potere viene posizionato dietro i rapporti sociali”. Come è noto, la persuasività della teoria foucaultiana doveva molto al “socialismo reale” dell’Urss, dimostrazione vivente (anzi morente) della non riconducibilità dei rapporti di potere ai rapporti tra le classi. L’odierna crisi del capitalismo reale mondializzato può forse aiutarci a ripensare criticamente la metafisica del potere foucaultiana. E a sostituirla con strumenti analitici e teorici più attenti all’importanza dello specifico potere localizzato nei rapporti di produzione e di sfruttamento. E alle sue insanabili contraddizioni.
Chiunque abbia compiuto gli studi di filosofia nei primi anni Ottanta e si sia rivolto al pensiero di Nietzsche si è dovuto confrontare con Nietzsche e la filosofia di Gilles Deleuze. Uscito in Francia nel 1962, questo testo allora circolava in una traduzione di Salvatore Tassinari (Firenze, Colportage, 1978). Chi scrive la cercò a lungo prima di poterla leggere. E di rimanerne assai deluso. Per un motivo semplice: la lettura proposta da Deleuze era molto lontana dal senso dei testi di Nietzsche, che già si potevano studiare nell’edizione critica a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montanari (non era così nella Francia del 1962 - e infatti Deleuze citava a piene mani da “La volontà di potenza”, una raccolta molto opinabile di frammenti postumi curata dalla tremenda sorella di Nietzsche). Lontana dal senso profondo di questi testi, e anche da quello superficiale. Che dire, ad esempio, dell’incipit del volume, che ravvisa il “progetto di Nietzsche” nell’“introdurre in filosofia i concetti di senso e di valore”, facendo di Nietzsche un Max Scheler qualsiasi? O dell’affermazione per la quale “la lezione dell’eterno ritorno sta in questo, che non c’è ritorno del negativo”? Nonostante la libertà ed arbitrarietà della sua interpretazione, anzi proprio per questo, il testo di Deleuze conobbe un enorme successo, e influenzò profondamente anche la lettura foucaultiana del pensiero del filosofo tedesco. Correttamente, quindi, Jan Rehmann sceglie di affrontare congiuntamente queste due interpretazioni del pensiero di Nietzsche. Ma l’obiettivo del suo testo è in realtà più ampio, e prende di mira l’utilizzo (anche) del pensiero nietzscheano per liquidare il marxismo. Operazione realizzatasi con pieno successo anche da noi negli anni Settanta e Ottanta (lo mostra la bella introduzione di Stefano Azzarà al volume). Grazie, appunto, anche a Deleuze e Foucault. Deleuze contrappone alla metafisica della negazione e della contraddizione (di stampo hegeliano e marxista) una metafisica delle “differenze”, valorizzando il Nietzsche pluralista e prospettivista. E crea una continuità Spinoza-Nietzsche che conoscerà enorme fortuna nei decenni successivi. Per quanto riguarda il primo aspetto Rehmann obietta, tra l’altro, che la contrapposizione di Deleuze trascura l’elemento dialettico presente nello stesso Nietzsche. Per quanto riguarda il rapporto con Spinoza, Rehmann mostra come l’identificazione del concetto di “potenza” nei due pensatori (che Deleuze traduce nella sua filosofia nel concetto di “desiderio”) trascuri la decisiva modificazione semantica subita dalla nozione spinoziana di “potentia agendi”: essa giunge infatti a Nietzsche mediata dalla traduzione contenuta nella Storia della filosofia moderna di Kuno Fischer (“Macht”) il che dà al termine una curvatura assai più inquietante di quella originaria (il termine tedesco significa infatti potenza, ma anche potere e violenza). Le pagine dedicate al concetto di potenza sono tra le migliori del libro, assieme alla confutazione della presunta contrapposizione di “provenienza” e “origine” che Foucault vede in Nietzsche. Quanto a Foucault, il concetto pluralistico di “potere” – ereditato dalla lettura deleuziana di Nietzsche – è notoriamente un tassello fondamentale del preteso superamento della teoria “totalitaria” del marxismo (e della psicoanalisi). Rehmann analizza l’intero percorso intellettuale di Foucault e osserva che in realtà Foucault fa uso di una categoria astratta e onnicomprensiva di potere, tale da configurare una vera e propria “metafisica del potere” (Breuer): un potere inteso insomma come una misteriosa entità che starebbe “dietro” tutti i rapporti sociali, come un piano ontologico più profondo. In tal modo, “la pretesa legittima di ampliare l’analisi del potere al di là del paradigma dell’appropriazione si rovescia in un essenzialismo mediante il quale il potere viene posizionato dietro i rapporti sociali”. Come è noto, la persuasività della teoria foucaultiana doveva molto al “socialismo reale” dell’Urss, dimostrazione vivente (anzi morente) della non riconducibilità dei rapporti di potere ai rapporti tra le classi. L’odierna crisi del capitalismo reale mondializzato può forse aiutarci a ripensare criticamente la metafisica del potere foucaultiana. E a sostituirla con strumenti analitici e teorici più attenti all’importanza dello specifico potere localizzato nei rapporti di produzione e di sfruttamento. E alle sue insanabili contraddizioni.
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