mercoledì 15 luglio 2009

DIMENTICARE MARX PER AFFERMARE LA VOLONTA' DI POTENZA

di Vladimiro Giacché, "il manifesto", 26 aprile, p. 14

Chiunque abbia compiuto gli studi di filosofia nei primi anni Ottanta e si sia rivolto al pensiero di Nietzsche si è dovuto confrontare con Nietzsche e la filosofia di Gilles Deleuze. Uscito in Francia nel 1962, questo testo allora circolava in una traduzione di Salvatore Tassinari (Firenze, Colportage, 1978). Chi scrive la cercò a lungo prima di poterla leggere. E di rimanerne assai deluso. Per un motivo semplice: la lettura proposta da Deleuze era molto lontana dal senso dei testi di Nietzsche, che già si potevano studiare nell’edizione critica a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montanari (non era così nella Francia del 1962 - e infatti Deleuze citava a piene mani da “La volontà di potenza”, una raccolta molto opinabile di frammenti postumi curata dalla tremenda sorella di Nietzsche). Lontana dal senso profondo di questi testi, e anche da quello superficiale. Che dire, ad esempio, dell’incipit del volume, che ravvisa il “progetto di Nietzsche” nell’“introdurre in filosofia i concetti di senso e di valore”, facendo di Nietzsche un Max Scheler qualsiasi? O dell’affermazione per la quale “la lezione dell’eterno ritorno sta in questo, che non c’è ritorno del negativo”? Nonostante la libertà ed arbitrarietà della sua interpretazione, anzi proprio per questo, il testo di Deleuze conobbe un enorme successo, e influenzò profondamente anche la lettura foucaultiana del pensiero del filosofo tedesco. Correttamente, quindi, Jan Rehmann sceglie di affrontare congiuntamente queste due interpretazioni del pensiero di Nietzsche. Ma l’obiettivo del suo testo è in realtà più ampio, e prende di mira l’utilizzo (anche) del pensiero nietzscheano per liquidare il marxismo. Operazione realizzatasi con pieno successo anche da noi negli anni Settanta e Ottanta (lo mostra la bella introduzione di Stefano Azzarà al volume). Grazie, appunto, anche a Deleuze e Foucault. Deleuze contrappone alla metafisica della negazione e della contraddizione (di stampo hegeliano e marxista) una metafisica delle “differenze”, valorizzando il Nietzsche pluralista e prospettivista. E crea una continuità Spinoza-Nietzsche che conoscerà enorme fortuna nei decenni successivi. Per quanto riguarda il primo aspetto Rehmann obietta, tra l’altro, che la contrapposizione di Deleuze trascura l’elemento dialettico presente nello stesso Nietzsche. Per quanto riguarda il rapporto con Spinoza, Rehmann mostra come l’identificazione del concetto di “potenza” nei due pensatori (che Deleuze traduce nella sua filosofia nel concetto di “desiderio”) trascuri la decisiva modificazione semantica subita dalla nozione spinoziana di “potentia agendi”: essa giunge infatti a Nietzsche mediata dalla traduzione contenuta nella Storia della filosofia moderna di Kuno Fischer (“Macht”) il che dà al termine una curvatura assai più inquietante di quella originaria (il termine tedesco significa infatti potenza, ma anche potere e violenza). Le pagine dedicate al concetto di potenza sono tra le migliori del libro, assieme alla confutazione della presunta contrapposizione di “provenienza” e “origine” che Foucault vede in Nietzsche. Quanto a Foucault, il concetto pluralistico di “potere” – ereditato dalla lettura deleuziana di Nietzsche – è notoriamente un tassello fondamentale del preteso superamento della teoria “totalitaria” del marxismo (e della psicoanalisi). Rehmann analizza l’intero percorso intellettuale di Foucault e osserva che in realtà Foucault fa uso di una categoria astratta e onnicomprensiva di potere, tale da configurare una vera e propria “metafisica del potere” (Breuer): un potere inteso insomma come una misteriosa entità che starebbe “dietro” tutti i rapporti sociali, come un piano ontologico più profondo. In tal modo, “la pretesa legittima di ampliare l’analisi del potere al di là del paradigma dell’appropriazione si rovescia in un essenzialismo mediante il quale il potere viene posizionato dietro i rapporti sociali”. Come è noto, la persuasività della teoria foucaultiana doveva molto al “socialismo reale” dell’Urss, dimostrazione vivente (anzi morente) della non riconducibilità dei rapporti di potere ai rapporti tra le classi. L’odierna crisi del capitalismo reale mondializzato può forse aiutarci a ripensare criticamente la metafisica del potere foucaultiana. E a sostituirla con strumenti analitici e teorici più attenti all’importanza dello specifico potere localizzato nei rapporti di produzione e di sfruttamento. E alle sue insanabili contraddizioni.

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